L’impasse nel processo psicoterapeutico

In un interessante articolo Lorenzini cita Stolorow e Atwood: “Le impasse terapeutiche, se analizzate dal punto di vista dei principi che organizzano a livello inconscio le esperienze del paziente e del terapeuta, rappresentano un’occasione unica, una via regia per raggiungere l’obiettivo della comprensione psicanalitica”. In un interessante articolo Lorenzini cita Stolorow e Atwood: “Le impasse terapeutiche, se analizzate dal punto di vista dei principi che organizzano a livello inconscio le esperienze del paziente e del terapeuta, rappresentano un’occasione unica, una via regia per raggiungere l’obiettivo della comprensione psicanalitica”.L’impasse o la crisi in una  psicoterapia  è un punto di impantanamento in cui generalmente il terapeuta può vivere un senso di stagnazione e di non riuscire a  far riprendere  al paziente il flusso del processo di autoconsapevolezza e il percorso verso il cambiamento, mentre il paziente sente di aver perso il senso di star progredendo nella terapia verso l’obiettivo prefissato o verso una qualsiasi direzione.

Tutto questo generalmente ha a che vedere con le resistenze del paziente ad abbandonare il suo “mondo”. Foglio  Bonda  parla delle resistenze come  indicatori degli sforzi del cliente  per mantenere inconsci aspetti della propria realtà che provocano ansia e  riflettono la convinzione disperata del cliente di non avere vie d’uscita alternative e possibili. Sarebbero  quindi modi per autoaffermarsi proteggendo operazioni di difesa che gli hanno permesso la sopravvivenza, ma rivelano l’incapacità del soggetto di vedere o accettare che le soluzioni che gli hanno salvato la vita in passato non è detto che lo stiano facendo nel presente e  che, visto che  lo limitano causandogli  disagio, è un segno che è ora di abbandonarle. L’analisi delle resistenze paziente e sistematico da parte del terapeuta è allora un segno della sua fiducia nelle risorse del cliente e nelle sue capacità di trovare un modo di vivere meno limitante e più maturo.

Allora, come afferma Foglio Bonda  Il lavoro del terapeuta è  confrontarsi con il cliente e stimolarlo a passare dalla disperazione all’ansia produttiva che si presenta quando il cliente si rende conto di avere una scelta e una responsabilità, quindi di essere ancora in gioco. A proposito del non vedere alternative,  Lowen  nel descrivere il trattamento di una paziente depressa, nota che all’inizio della terapia l’approccio al corpo ha un effetto immediato e positivo. Il paziente prova sollievo dalle tensioni, riprende a respirare ed a sentire scorrere di nuovo un po’ di vitalità e capisce che può esserci un’altra via per uscire dalle sue difficoltà.

Precisazioni sui concetti di Transfert e ControtransfertSecondo Ringstrom, negli ultimi quindici anni, i teorici della psicoanalisi contemporanea hanno riconosciuto i limiti di modelli del transfert basati esclusivamente sulla storia del conflitto sia intrapsichico che delle relazioni oggettuali del paziente, da un lato, e di modelli basati sui deficit dello sviluppo o sui problemi di attaccamento, dall’altro. Si sono resi conto che l’intimità  profonda nella diade analista-paziente è il risultato di un incontro in cui le due soggettività  interagiscono e si compenetrano in modo da formare un’intersoggettività che è tale da aver portato le correnti psicanalitiche recenti a rivedere il concetto di controtransfert per cui l’autore  preferisce  parlare di relazione di transfert o co-transfert, come amalgama delle organizzazioni di transfert dell’analista e del paziente comprendenti sia la componente “ripetitiva” ossia la ripetizione di relazioni precedenti di ognuno dei componenti della diade terapeutica, sia la componente “necessaria”, ossia la relazione “buona”, riparativa ed evoluta rispetto alle relazioni passate.

Come nota Migone, nella concezione psicoanalitica classica il controtransfert viene visto come “transfert del terapeuta”, cioè come un riattivarsi, in seguito alla relazione col paziente, di sentimenti già vissuti dal terapeuta nel suo passato.

Da una rassegna fatta da Eagle, risulta che il significato predominante dei concetto di transfert è cambiato e ora non si riferisce più alle proiezioni e distorsioni del paziente su un analista visto come uno schermo bianco, ma coincide piuttosto con l’idea che le reazioni che costituiscono il  transfert del paziente si basino su indizi che l’analista lascia trapelare, ciò significa che l’analista reagisce al paziente con una modalità personale, perché l’analista non può funzionare come uno schermo bianco.

Secondo Eagle, anche il  contro-transfert è visto non più semplicemente come la reazione del terapeuta ai sentimenti proiettati nella relazione dal paziente. In sintesi, mentre secondo la psicoanalisi classica il contro-transfert dell’analista è la reazione al transfert del paziente e contiene i  conflitti, le angosce e le difese irrisolte nell’analista, il punto di vista contemporaneo invece vede nel controtransfert uno strumento prezioso perché le reazioni dell’analista al transfert del paziente possono rivelargli cosa sta succedendo proprio nell’inconscio del paziente. Eagle  invita a trovare un giusto mezzo tra le posizioni estreme e quindi a non dare per scontato che i pensieri e sentimenti dell’analista (controtransfert) siano sempre e solo un riflesso di ciò che sta succedendo nel paziente, ma a rimanere  consapevoli che parte di ciò che il terapeuta sente e pensa può derivare dal suo passato e costituire una barriera alla comprensione.

Quindi è importante che il terapeuta utilizzi il proprio controtransfert per capire  cosa sta succedendo nella relazione, ma tenendo sempre presente che esiste il pericolo di agire proprio come il paziente vuol portarlo ad agire, sulla spinta della sua coazione a ripetere vecchi schemi patologici di relazione, col rischio di impantanare la relazione terapeutica seguendo il paziente in vecchi modelli ripetitivi che gli hanno creato grande sofferenza, confermandogli così l’impossibilità di relazionarsi in modo alternativo.

A questo proposito Migone nota che il termine identificazione proiettiva è stato trovato da molti analisti più utile di quelli di transfert/controtransfert perché veicola l’aspetto relazionale del problema, soprattutto nei casi in cui il terapeuta sente che l’incontro col paziente porta veramente qualcosa di nuovo, e ciò che l’analista stesso prova non è riconducibile ad una riattivazione di propri elementi irrisolti o ad una reazione al comportamento del paziente (controtransfert), ma è come se il paziente stesse inconsciamente cercando di far provare al terapeuta quello che egli prova. Questa possibilità ha permesso  uno sblocco di difficili situazioni di stallo terapeutico, in cui i terapeuti  si sentivano colpevolizzati per quello che provavano.

Esempi di impasse nel corso del processo psicoterapeutico

Un esempio di come  è importante che il terapeuta stia in contatto con quello che prova, è il caso clinico discusso da Ogden  riportato da Migone che mostra come il terapeuta riesce ad uscire da una situazione pesante di impasse.

Nel caso riportato il paziente era stato sempre implicitamente ritenuto colpevole dell’abbandono della madre da parte del padre dalla madre stessa, con riferimenti continui all’avidità di attenzioni, cure, energie che il paziente mostrava nei confronti della madre. L’analista, dopo un po’ di sedute col paziente aveva cominciato a sentirsi inspiegabilmente avido e a provare vergogna per la propria avidità fino a sforare nelle sue sedute con lui concedendogli svariati minuti in più ogni volta. Dopo aver collegato questo suo sentimento a quello intollerabile che doveva aver provato il paziente per tutta l’infanzia, e cioè una indicibile vergogna per essere stato tanto avido da aver causato l’abbandono da parte del padre, l’analista è riuscito a “digerire” questo suo sentimento inspiegabile, fino al punto che quando un giorno il paziente lo accusava di avere un sorriso soddisfatto nel ricevere l’assegno e diceva che “questo non si addice ad uno psichiatra”, l’analista ha potuto rispondere con tranquillità che ammetteva senz’altro che gli faceva piacere ricevere denaro per il proprio lavoro. Il terapeuta ha capito che poteva provare il suo sentimento senza esserne danneggiato. In realtà ciò che nuoceva al processo psicoterapeutico non era il provare tutto ciò, ma il cercare di negarlo, perché  provocava problemi col setting e una tensione che non gli permetteva di essere presente nella relazione.

Il terapeuta aveva mostrato al paziente che è possibile tollerare certi sentimenti e persino esprimerli, senza danno. L’identificazione proiettiva del paziente, ossia il suo meccanismo di difesa che lo aveva portato a proiettare la sua avidità nel terapeuta con intensità fino a fargli sentire ciò che lui provava, si è potuta concludere con un riappropriarsi di questo sentimento da parte del paziente, o meglio di un appropriarsi della capacità di tollerarlo, grazie al fatto che il terapeuta gli aveva mostrato che era possibile.In un altro articolo di Todarello e Porcelli,  essi si riferiscono a Lefebvre  quando parla dell’emergere di una impasse narcisistica, ossia  una  relazione di transfert in cui c’è un’identificazione con l’oggetto tale che viene avvertita una  “costrizione” a vivere contemporaneamente bisogni di fusione con l’oggetto e  il  bisogno di distruzione dell’oggetto. Questa impasse narcisistica viene considerata da Lefebvre come un fattore predisponente alla somatizzazione, ma comune a gravi disturbi di personalità ed a varie psicopatologie ( tra cui psicosi, psicosomatosi, perversioni sessuali, tossicomanie).    Ruesch (1948, citato da Todarello e Porcelli) ipotizzava infatti che la mancanza di insight dei pazienti psicosomatici, dovuta alla difficoltà nel differenziare tra Sé e oggetto nel transfert simbiotico, fosse responsabile del fallimento della psicanalisi in questi casi. Come nella sindrome borderline, nei pazienti psicosomatici  si alternano e sono compresenti affetti molto intensi, infatti sembrano spaventati  dall’avvicinamento affettivo ma sembrano anche sentirsi rifiutati dalla distanza che li fa sentire vuoti e disperati, come accadeva nella relazione con la madre. Il terapeuta allora si trova a vivere varie tentazioni disperate che vanno dal voler fare l’eroe per avere una gratificazione narcisistica al sentirsi inadeguato e impotente cercando quindi di mettere in atto interventi seduttivi. Oppure lotta contro le tentazioni interpretando rigidamente e diventando apertamente rifiutante e ipercritico.Come nota Migone: “Il fulcro del processo terapeutico consisterebbe nel lavoro, da parte del terapeuta, di contenere, “macinare” i sentimenti generati in lui dal paziente, fino a che non riesce a starci un po’ meglio, a conviverci. Quindi l’aspetto centrale della terapia consiste nell’apprendere, da parte del paziente,  determinate strategie (affettive, cognitive, ecc.) che il suo terapeuta mette in atto per far fronte agli stati emotivi che egli vive nell’interazione con lui.Si assiste quindi, anche nella psicanalisi contemporanea, ad una rivalutazione della “esperienza emozionale” come fattore curativo alternativo all’uso delle interpretazioni.

In un articolo di Ringstrom egli rende l’idea di come l’intimità profonda che si stabilisce nella diade terapeutica  quando il cliente si è sentito profondamente deprivato, umiliato e invaso nella sua infanzia, porta a situazioni di impasse in cui, come dice l’autore, “l’analista e l’analizzando giungono a sperimentare un sistema in cui ciascuno si sente danneggiato se fa e danneggiato se non fa”9.In questo contesto, Ringstrom parla di situazione di impasse  con  doppio legame quando ciò che viene comunicato sul livello della dimensione del transfert rappresentata dal ripetere vecchi modelli di relazione, cancella il significato di ciò che viene comunicato sul livello dell’altra dimensione del transfert, quella che rappresenta una relazione riparativa e alternativa alle dolorose relazioni passate. Come esempio di questo, l’autore riporta un suo caso in cui il suo cliente si sentiva biasimato da lui ogni volta che l’analista faceva un commento sull’effetto che la loro relazione aveva su di lui. Quindi nonostante si sentisse compreso e sentisse che la sua esperienza veniva riconosciuta, si sentiva considerato inadeguato per  il fatto di avere questa esperienza. L’autore aveva quindi chiesto al cliente di  suggerirgli un modo di fornire i suoi interventi che poteva non farlo sentire biasimato e lui aveva suggerito di collegarli agli eventi della sua infanzia. A questo punto però il cliente realizzò che se realmente  l’analista  non lo stava biasimando, non c’era validità nei suoi ricordi di sentirsi biasimato dai genitori e per salvare il suo sistema di convinzioni doveva considerare l’analista come tutti gli altri, facendo prevalere la dimensione ripetitiva del transfert e perdendo la fiducia nell’efficacia della terapia. Da questo doppio legame non era possibile uscire parlandone direttamente perché il paziente si sarebbe sentito davvero biasimato e si sarebbe disconnesso dalla relazione. Un giorno il paziente espresse la sua rabbia perché gli sembrava che l’analista attribuisse il problema esclusivamente a lui come i genitori in passato  lo avevano sempre considerato l’origine di tutti i problemi; finalmente l’analista ammise la sua parte di responsabilità dicendo che  effettivamente l’irritazione che il paziente sentiva provenire da lui era reale e dovuta alla frustrazione dei suoi tentativi di comunicare senza biasimare. L’analista aveva quindi accettato la propria responsabilità nel creare il doppio legame e quindi il problema. Questo tipo di  metacomunicazione aveva finalmente permesso di emergere dall’impasse e il risultato era un modello riparativo di relazione in cui la responsabilità è mutua e non c’è impotenza o onnipotenza da una delle due parti.

È fondamentale però precisare che non sempre è possibile che il terapeuta riveli il proprio vissuto.Maley sostiene infatti che con i pazienti meno disturbati, il terapeuta può definire meglio i limiti, offrire un modello più adeguato con cui identificarsi,  rimandare al paziente che egli può veramente avere un effetto sul terapeuta. Quindi rimandare il proprio controtransfert può essere fatto solo ad un certo punto di costruzione dell’alleanza terapeutica e con persone  che hanno raggiunto un certo grado di coesione dell’Io, per cui sono in grado di tollerarlo ed elaborarlo, senza sentirsene minacciati o confusi.Cristina Barbero in un articolo sull’alleanza terapeutica sottolinea l’inevitabilità di periodiche rotture nell’alleanza terapeutica con messa in discussione, da parte del paziente, del lavoro fatto. Generalmente accade perché l’affiorare di dolori passati e ansie finora represse, porta a fare un bilancio costi benefici e a mettere in dubbio che sia valsa la pena di intraprendere questo viaggio e che il terapeuta sia veramente in grado di aiutare a  raggiungere l’obiettivo. Obiettivo che spesso nelle fantasie del cliente è il ritorno ad uno stato precedente a quello dell’insorgenza del malessere, per cui compito del terapeuta è aiutarlo a riconoscere che quel disagio è indicativo che l’equilibrio precedentemente raggiunto non era più funzionale mentre ora c’è la possibilità di crearne uno più adatto alla nuova situazione di vita.In un altro interessante articolo, Michele Novellino riporta l’esempio del caso di una donna con crisi depressive, disturbi nella vita sessuale e relazionale (assenza di una vita affettiva duratura) e disturbi fisici a livello gastrico e cardiaco.

L’autore vede  alla base del quadro psicopatologico due contaminazioni che in analisi transazionale stanno a significare l’interazione con annesso condizionamento e influenzamento, tra stati dell’Io deputati alla gestione della realtà attuale (Io Adulto),  stati dell’Io influenzati da modelli di relazione proposti dalle figure di accudimento e quindi  introiettati (Io Genitore) e stati dell’Io che riattualizzano esperienze infantili vissute in prima persona dal soggetto quando era bambino (Io Bambino). Le due contaminazioni individuate sarebbero quella  tra Genitore e Adulto (“non fidarti degli estranei, soprattutto uomini”, in quanto la madre della cliente era stata abbandonata dal marito e ne parlava sempre con rancore) e quella tra  Bambino e Adulto (“non mi legherò mai a nessuno, come a mia madre” come aveva fatto la madre della cliente).L’autore  individua nella storia della cliente  delle ingiunzioni inconsapevoli veicolate dalla madre alla figlia: di non contare sui legami; la continua svalutazione del padre da parte della madre avrebbe veicolato una seconda ingiunzione inconscia, quella di non essere importante come femmina; le richieste materne di essere una brava ed ineccepibile studentessa avrebbero invece portato in sé  l’ingiunzione  di essere perfetta per non aver bisogno di nessuno.Proprio quest’ultima ingiunzione sarebbe stata responsabile di una conseguente impasse nella relazione con il terapeuta in quanto la cliente gli attribuiva aspettative nei suoi confronti che lei fosse perfetta e nello stesso tempo anche lei esigeva che lui lo fosse, reagendo con rabbia e frustrazione per ogni suo minimo errore, anche un ritardo di pochi minuti.Era sempre più chiaro al terapeuta che le precedenti esperienze di terapia della cliente erano fallite probabilmente perché lei sentiva di non potersi permettere di stabilire un legame profondo con il terapeuta in quanto avrebbe rischiato di  essere abbandonata come persona e di non ricevere importanza come donna, e, ironia della sorte, i fallimenti terapeutici precedenti avevano rinforzato questa convinzione. Questo costituiva una ripetizione dei suoi vissuti nei confronti del padre.Anche Novellino ritiene il controtransfert  del terapeuta uno strumento prezioso per seguire le vicissitudini emotive del cliente, che tende a proiettare sul terapeuta, per cui se il terapeuta lo riconosce e aiuta l’Adulto del cliente a prendere consapevolezza, aiuterà anche il Bambino del cliente a considerare nuove opzioni e quindi ad uscire dalla sua confusione.Così,  la consapevolezza da parte del terapeuta della propria irritazione per il perfezionismo della cliente, discusso ed elaborato con lei, ha permesso di ricostruire la rabbia con cui la madre rispondeva alle sue richieste di essere ascoltata quando era bambina. Di qui, ristabilita una buona alleanza terapeutica, è stato possibile ricostruire anche gli altri tipi di impasse nella storia personale della cliente e le ingiunzioni inconsce materne che la portavano ad esasperare gli uomini e ad allontanarli perché non erano all’altezza, a non stabilire legami profondi per il terrore dell’abbandono e per il senso di lealtà e obbedienza nei confronti delle aspettative della madre che  rimanesse sola come lei.Anche Keleman, che lavora prendendo in considerazione la totalità corpo-mente  dell’individuo,  riporta un caso di impasse: il caso di un uomo che aveva paura di amare ed essere amato in quanto identificava l’amore con schiavitù e dipendenza. Keleman, rispettando le resistenze della persona, è riuscito a farlo entrare in contatto lentamente e gradualmente con il proprio  corpo che all’inizio era disabitato perché esperito come terrificante, quindi tagliato fuori dalla vita che si svolgeva  tutta nelle fantasie e nei pensieri, senza quindi neanche la possibilità di una vera e vissuta sessualità. In particolare,  il piacere gli proveniva solo dal liberarsi al più presto dell’eccitazione, perché il suo ambiente durante l’infanzia era stato stimolante in senso sessuale ma anche rifiutante in reazione alle sue risposte a questi stimoli, per cui egli aveva imparato a non contenere ma solo a scaricare l’eccitazione come qualcosa di pericoloso.  Con il lavoro sul corpo il cliente  cominciò a sperimentare una dimensione diversa e più profonda del piacere  legata alla capacità di contenere l’eccitazione e quindi al contatto prolungato con il proprio corpo, cioè con le proprie sensazioni e con i propri sentimenti.  Keleman riferisce di essersi sentito messo a dura prova, perché appena  l’energia cominciava a fluire nel petto grazie  al  lavoro sul corpo, il cliente sentiva tutta la mancanza d’amore che aveva subito, con collera e depressione annesse; appena l’energia fluiva nel bacino, provava disgusto per se stesso e per il suo sesso, nonché una forte ansia; appena si abbandonava sentiva un forte impulso a tirare con violenza e afferrare e si agitava istericamente arrivando a minacciare il terapeuta di attaccarlo e poi successivamente si odiava e voleva danneggiarsi.Ancora una volta la capacità del terapeuta di stare, anche in una situazione che non sembrava portare nella direzione voluta della riorganizzazione dell’esperienza corporea intorno al piacere della vitalità e dell’espansione, ha portato i suoi frutti, e il lavoro sull’allentamento delle contrazioni nel bacino e delle contrazioni attorno al collo, per cercare di permettere al flusso di energia di arrivare a scaricarsi verso il basso, ha portato il cliente a sentire di potersi permettere di vivere tutta la tristezza e il vuoto, tutta la povertà emotiva. Anche in questo caso il coraggio da parte del cliente di lasciare il vecchio rigido mondo “di testa” che si era costruito per sperimentare un mondo nuovo che si espandeva in tutte le direzioni, stimolato dal lavoro corporeo sul bacino, ha permesso l’accettazione dell’eccitazione nel bacino senza una scarica immediata e questo ha portato all’esperienza nuova di assertività e di una sessualità più aggressiva e meno passiva. Tutto questo processo, dopo un’apparente stagnazione,  portò ad una specie di insight corporeo, in quanto un giorno, dopo un’esercizio di iperestensione in cui il cliente doveva piegarsi all’indietro con le braccia molto tese,  posizione   che aveva allentato una contrazione nell’addome,  il cliente  cominciò ad urlare e poi crollò come un bambino impotente, finalmente libero di esprimere  il dolore per la privazione di contatto, di accettazione e di amore. Questa crisi appresentò una svolta  dopo la quale i comportamenti impulsivi umilianti ed autodistruttivi originati dal bisogno di scaricare l’eccitazione lasciarono  il posto alla capacità di stare con le emozioni, accettare una relazione continua in cui c’erano un dare e ricevere amore e una profonda soddisfazione senza più la necessità di dipendere e contemporaneamente ribellarsi alla schiavitù materna.Per quanto riguarda la possibilità di prevedere fin dall’inizio che tipo di sviluppo può avere la psicoterapia con una determinata persona, in un articolo di Alice Pieroni viene citato Menninger  secondo il quale anche il primo colloquio è determinante per la prognosi degli sviluppi della terapia successiva. L’autrice  cita Liberman che invita a concentrare l’attenzione sul tipo di contributo che il paziente dà al terapeuta nella ricerca delle determinanti interne delle proprie difficoltà. Già il tipo di adattamento che il terapeuta dovrà trovare per stabilire un contatto con quella persona è indicativo del tipo di relazione che potrà stabilirsi durante il trattamento, con conseguente possibilità di valutare la possibilità di poter prendere o meno in cura quella persona. Soprattutto nel caso in cui si fanno almeno due colloqui  preliminari, il cambiamento del tipo di risposte del cliente agli interventi del terapeuta è un buon indizio della possibile buona riuscita dell’interazione terapeutica. Per  esempio il cliente può prendere coscienza del sintomo grazie alle condizioni create dal terapeuta oppure aumentare le difese, nel qual caso bisogna indagare per capire se ciò costituisce una resistenza di tipo nevrotico o una protezione di un’organizzazione di personalità più fragile. Secondo l’autrice è importante prendere nota del clima emotivo, dell’atmosfera che precede e segue gli interventi analitici e delle sensazioni che restano ad entrambi i componenti della diade dopo un colloquio e registrare le differenze nella sua partecipazione da un colloquio all’altro.L’autrice ricorda anche quanto è importante che il terapeuta non sia precipitoso nel dare indicazioni di trattamento se perché un’indicazione errata o prematura può innescare rassegnazione e sfiducia da parte del cliente nelle proprie capacità evolutive.  Alla fine di una consultazione andata a buon fine invece il terapeuta restituisce al cliente  la responsabilità della propria cura e se il cliente ha elaborato  ciò che è avvenuto negli incontri preliminari ne esce con una maggiore consapevolezza delle proprie potenzialità e con maggiore speranza.Le basi del lavoro corporeo in psicoterapiaBoadella e Liss integrano i dati delle recenti ricerche sulla neurofisiologia e le idee di Reich e Lowen per costruire un modello teorico di riferimento che possa guidare una psicoterapia del corpo.In particolare cercano di integrare  il principio di interazione reciproca tra le componenti simpatico e parasimpatico del sistema nervoso autonomo scoperto da Gellhorn nel 1967, la teoria di Henri Laborit che ha scoperto una terza via neuronale che collega sistema limbico e ipotalamo (oltre alla via che media le azioni di ricerca del piacere e  quella che media l’attacco e la fuga) e che  sarebbe responsabile di un sistema di inibizione dell’azione volontaria, la teoria di medicina psicosomatica dell’organo dello stress e la teoria psicanalitica delle relazioni d’oggetto. Tutto questo viene combinato per  tentare di dare  a  fenomeni complessi e dalla matrice  multifattoriale come la nevrosi e la malattia psicosomatica un quadro di riferimento dell’eziologia che sia altrettanto complesso e multifattoriale. Infatti gli autori partono dal fatto  che quando interviene l’inibizione subcorticale e quindi una emozione o un’impulso non vengono espressi e l’azione espressiva viene inibita, lo stato fisiologico normale dell’organismo non può essere ripristinato perché  se  la scarica del sistema simpatico o del sistema parasimpatico non è completa non si ha il rimbalzo nel sistema opposto e invece di passare (come è invece fisiologico) dall’attività dell’uno a quella dell’altro, i due sistemi entrano in azione contemporaneamente causando una tensione cronica con corrispettivo vissuto di angoscia. L’inibizione dell’azione sarebbe accompagnata da fantasie e pensieri negativi che hanno un effetto di feedback rinforzante l’inibizione.A questo punto  alla rimozione dell’angoscia si accompagna un innalzamento del tono muscolare che limita la sensibilità ed ecco che si formano le armature caratteriali di cui parlano Reich e Lowen, con vere e proprie contratture localizzate in punti del corpo interessati da azioni espressive o emozioni che sono state abortite con conseguente formazione di una tensione cronica: occhi fissi; bocca chiusa e mascella serrata;  gola stretta; collo rigido; spalle sollevate e tese; petto appiattito o sollevato con ridotta capacità respiratoria; contrazioni addominali;ridotta flessibilità della colonna per contrazioni nella parte bassa della schiena; contrazioni del bacino; contrazioni nelle gambe.Rispoli, con la sua psicologia funzionale, sembra in linea con questo approccio visto che parla del Sé come insieme strutturato di funzioni.La gamma delle possibili condizioni in cui una funzione può esprimersi è ampia all’inizio della vita e il neonato può spaziare lungo varie sfumature di eccitazione, dal piacevole allo spiacevole, così come può utilizzare un ampio repertorio di reazioni fisiologiche, movimenti e comportamenti per cercare di adeguarsi alla situazione specifica. Quando invece l’ambiente, come dice Winnicott, non si adatta attivamente al neonato ma anzi crea (trascurando o richiedendo anticipatamente reazioni che il neonato non è pronto a fornire) un’esperienza di pressione, lo psiche-soma del neonato è costretto a reagire e queste reazioni disturbano la sua continuità di esistenza, creando per esempio, un pensiero ipertrofico perché il neonato avverte la necessità di doversi prendere cura di sé da solo. Rispoli fa l’esempio di come il piacere dell’alimentazione si perde quando questa viene fornita costantemente in ritardo e cioè quando l’eccitazione della fame si è trasformata in un’esperienza dolorosa che coinvolge tutte le funzioni fisiologiche, e che rimane impressa nel corpo del bambino come uno stato fisiologico associato ad uno stato di penoso allarme per la sopravvivenza. A questo punto in questo esempio si può notare già una alterazione dell’organizzazione delle funzioni, con confusione dei piani funzionali fame, ansia e dolore e quindi riduzione della gamma di sfumature possibili della stessa funzione che porta anche alla ripetizione stereotipata di certe reazioni dell’organismo che invece di utilizzare l’intera gamma di reazioni disponibile, tende a fossilizzarsi su alcune per la necessità di difendersi da quella che ha avvertito come una minaccia profonda alla propria integrità. Questo è ciò che Rispoli chiama sclerotizzazione delle funzioni, ossia vengono attuate solo poche delle tante possibili espressioni della funzione, un esempio ne sono idee che si ripetono fino all’ossessione, emozioni ripetitive perché fissate, ecc.     Tutto questo può spiegare come certe esperienze pre-verbali determinano sintomi che sono difficilmente raggiungibili dal semplice colloquio verbale col terapeuta.Come nota Rispoli, quando una funzione è alterata, perché scissa,  ipotrofica o sclerotizzata, l’adattamento all’ambiente e l’efficacia dell’interazione con esso vengono ridotti  e lo stesso movimento, comportamento, reazione emotiva o  pattern di risposta fisiologica vengono ripetuti in maniera stereotipata nonostante la loro inadeguatezza alla situazione, nonostante il riconoscimento di essa da parte del soggetto e i suoi sforzi di volontà.Questo succede perché  c’è una vera e propria incapacità, un pezzo mancante, perchè, come dice Maley non sono stati ancora imparati i passi per svilupparlo. E’ allora importante che il terapeuta possa tollerare e apprezzare tutto il tempo che il paziente sente necessario per esperire quel senso di vuoto e inadeguatezza che gli serve per riprendere contatto con le parti più profonde del sé non ancora sviluppate.Per quanto riguarda invece come le resistenze possono sabotare la terapia portando ad un’impasse a volte letale per il percorso psicoterapeutico, Bennett Shapiro, formatore bioenergetico americano che attinge all’Analisi Transazionale, propone un’immagine di grande effetto: quella del terapeuta sulla nave “TITANIC” che si arma e parte con tutta la sua potenza (la potenza del suo ruolo) e si appresta a raggiungere il cliente per “salvarlo” ma, guarda caso, il cliente è l’iceberg! E’ molto interessante come Shapiro affronta quello che lui chiama il “lato oscuro” della terapia, che sarebbe costituito dalle energie represse di entrambi, terapeuta e paziente, i quali, come ogni essere umano, hanno imparato a sopravvivere all’educazione sociale impartita dalle proprie famiglie nascondendo e reprimendo parti di sé, esibendo al loro ambiente un “falso sé”, ossia un ruolo. Purtroppo però questa repressione di una parte potente della nostra energia che sono i nostri impulsi sessuali per esempio o la nostra rabbia esplosiva, ha l’effetto di creare quelli che Shapiro chiama i Diavoli in noi: essi sarebbero cioè la personificazione della negatività che è il risultato della repressione della potente energia dei nostri impulsi e sentimenti. E’ come se, dice Shapiro l’energia intrappolata si infettasse come il pus e divenisse velenosa non solo per le nostre relazioni emozionali, ma anche per la nostra stessa salute fisica, (per il noto effetto dannoso che hanno le contratture sulla circolazione sanguigna e linfatica e quindi a lungo andare sulla salute generale dell’organismo). Nella relazione terapeutica inoltre, questa negatività prende la forma di una profonda sfiducia nel terapeuta o negli scopi della terapia. Infatti la persona che ha accumulato molta negatività è di solito una persona che si è sentita non amata, tradita, umiliata o usata dalle persone da cui dipendeva e da cui aveva bisogno di essere rispettata e amata così com’era, per cui queste ferite profonde hanno prodotto una serie di contratture e chiusure volte a proteggere e difendere da attacchi e delusioni ulteriori (l’armatura caratteriale di cui parla Reich ha molto a che fare con questo aspetto).Shapiro nella sua lunga esperienza di terapeuta (circa trent’anni), dice che ha sperimentato che se il terapeuta non è in collusione col cliente, dopo la cosiddetta “luna di miele” iniziale nella loro relazione, comincia a sperimentare tutta la paura, la diabolicità e quindi la negatività del cliente che, per la paura di non riuscire a fronteggiare tutte le emozioni  a lungo represse, inconsciamente tenta di sabotare la terapia portando il terapeuta a colludere o entrando in collisione con lui. Il cliente ha paura di essere di nuovo usato o umiliato o tradito o abbandonato, come nella sua infanzia, ma questo ad un livello inconscio, per cui i suoi aspetti difensivi reagiscono alla terapia ed al terapeuta come ad una minaccia, la minaccia di far crollare la torre difensiva basata sulla repressione che ha permesso finora un sufficiente adattamento alla vita sociale e/o lavorativa. Per questo il cliente non è da sottovalutare come iceberg, con le sue punte acuminate può senz’altro far affondare il “potente” TITANIC!Non è assolutamente da sottovalutare però neanche il lato oscuro del terapeuta, che anzi, per mantenere il ruolo di “colui che aiuta” deve tenere a bada tutti gli impulsi e sentimenti che sono in contrasto con questo ruolo (o almeno che secondo una certa tradizione più o meno ufficiale sono stati considerati per anni in contrasto col ruolo del terapeuta, come lo scherzare, il provocare ecc.). Ovviamente, se ci conosciamo almeno un po’ avremo notato che più ci dobbiamo trattenere e più monta in noi una ribellione e la voglia di fare ciò che è proibito! Così anche il rigido mantenimento del ruolo di terapeuta basato su una repressione di impulsi e sentimenti è destinato a produrre negatività. Se il terapeuta reagisce a queste paure profonde cercando di negare i propri sentimenti e diventando ancora più controllante e quindi teso, per motivi proprio fisiologici sente meno, per l’inibizione citata prima nella teoria di Liss e Boadella e perché le contratture si accompagnano ad un flusso circolatorio minore e quindi ad una minore sensibilità dei recettori periferici, e per effetto di feed-back sul sistema nervoso centrale, ad una minore sensibilità in generale, per cui alla fine i propri impulsi originari non vengono più avvertiti e il rischio di una collusione o una collisione col cliente aumenta (perché diminuisce la consapevolezza).Ciò che Shapiro propone per non incorrere nell’Acting-out e nel Transfert negativo da parte di entrambi (terapeuta e paziente) è che il terapeuta scenda dal grande, corazzato e potente TITANIC e raggiunga l’iceberg-paziente con un gommone che egli descrive come “flessibile”, “elastico” ed adatto a conformarsi ai contorni della parte sommersa dell’iceberg. (e quindi più pericolosa perché non visibile). Questo permette quindi al terapeuta di esplorare in modo più sicuro anche per sé le punte acuminate dell’iceberg e attraccare dove possibile senza danni. Uscendo dall’allegoria, questo significa che il terapeuta deve usare il proprio controtransfert come radar per captare le difese del cliente e capire di che qualità sono, permettendo loro di entrare in una specie di risonanza con le proprie, quindi coi propri diavoli, con le proprie negatività create dalla repressione dei propri istinti e sentimenti. Tutto questo evita l’acting-out, perché invece di agire sull’onda di impulsi ed emozioni repressi fino al punto da essere divenuti inavvertibili, il terapeuta parte da un contatto diretto con questi suoi impulsi e queste sue emozioni “inaccettabili” e minacciose per il proprio ruolo e proprio sulla base di queste  sonda come siano state stimolate da quelle corrispondenti presenti ed attive nel cliente. Questa esperienza del controtransfert del lato oscuro, secondo Shapiro, è lo strumento più efficace (più dell’esame delle resistenze del corpo, dell’esame della storia evolutiva e delle relazioni interpersonali del cliente) per poter conoscere ed interagire efficacemente con le difese più profonde ed agguerrite del paziente, pronte a sabotare la terapia.Tutto questo si traduce in una minore rigidità e tensione dell’atteggiamento del terapeuta che quindi risulta più a suo agio, meno distante e meno volto a proteggere il proprio ruolo, ma più allegro e pronto a cogliere con humour anche le provocazioni del cliente, permettendo a quest’ultimo di sentirsi meno minacciato, facendolo sentire più rilassato nel vedere davanti a sé una persona competente, invece che un ruolo intimidante e soprattutto un terapeuta che è una  persona che si mette in gioco insieme a lui, invece di studiarlo dall’alto.Secondo Maley Il terapeuta deve lasciare all’altro lo spazio per essere, sganciare la propria maschera e contattare la propria ombra e poi il proprio nucleo emozionale autentico, permettendo così al paziente di fare altrettanto.Così la completezza si ottiene vivendo fino in fondo la propria incompletezza, perché se la nostra ombra, ciò che non vogliamo vedere, diminuisce perché gettiamo luce su di essa, ci sarà un aggancio minore per le proiezioni dell’altro e questo rende più efficace la terapia e dà al paziente la speranza di scoprire in sé qualcosa di più di quello che pensa di essere e di poter esperire.Il lavoro di LowenNe “La depressione e il corpo”, Lowen dice di aver notato durante gli  anni di lavoro terapeutico con persone depresse,  che  concentrare l’attenzione sul corpo in psicoterapia rende la persona consapevole che il suo problema non è solo “di testa” e del perché  il suo grande sforzo di volontà per superare le sue tendenze “mentali” depressive non ha funzionato. Allora il senso di inadeguatezza per il fallimento dei propri tentativi (che non faceva altro che aumentare il senso di impotenza che costituisce il nucleo della depressione) lascia il posto al realizzare che “il processo depressivo è fuori della portata della consapevolezza mentale” perché coinvolge l’intera unità mente-corpo e va affrontata in modo più globale e complesso che con un semplice atto mentale o di buona volontà.Lowen parla dell’analisi bioenergetica come di una terapia analitica che riconosce la necessità di riportare alla coscienza ricordi rimossi e scaricarli emotivamente. Ma parte dalla considerazione che il corpo è il riflesso più evidente del sé della persona e dal fatto che molte persone non hanno contatto né consapevolezza di alcune parti del proprio corpo per cui la mobilitazione proprio di queste parti riporta a galla emozioni ed immagini sentite come spaventose. Per esempio  paura e rabbia bloccate sono congelate nei muscoli contratti della schiena, oltre che della mascella e della gola,  come se un impulso a colpire o urlare o mordere  fosse stato trattenuto. Infatti  è interessante notare come sia l’attaccare con rabbia che il ritirarsi indietro del corpo nella paura coinvolgano le spalle e il collo e i muscoli dorsali per cui la mobilitazione di queste parti del corpo può favorire anche l’emergere di una rabbia originariamente diretta verso un genitore per esempio. Secondo Lowen lo scopo della terapia è la scoperta di sé e ciò implica tre fasi, o passi.Il primo è costituito dalla consapevolezza di sé che passa per il sentire ogni parte del proprio corpo e i sentimenti che emergono quando  si sente veramente.Il secondo passo è l’espressione di sé, perché i sentimenti non espressi vengono repressi e così il contatto con se stessi si perde. Lowen parla della rabbia omicida temuta da molte persone e quindi repressa come di una bomba inesplosa che si può far esplodere nel luogo sicuro costituito dalla terapia, con conseguente gestione razionale di essa, una volta espressa.Il terzo passo è invece una nuova padronanza di sé che non passa per la repressione timorosa di sentimenti sentiti come ingestibili e dolorosi, ma per il contatto con se stesso e l’espressione di sé nel proprio interesse. Questo è il vero dominio di sé. Non c’è paura né vergogna di essere quello che si è, ci si accetta e ci si sente liberi di essere,  per questo ci si sente in grado di gestire qualsiasi emozione e situazione. Ma questo paradiso è il risultato di un lungo lavoro che porta anche attraverso l’inferno del sentire tutto il dolore e la paura che in passato non ci si sentiva forti abbastanza per sentire e gestire.Le esperienze infantili che hanno danneggiato l’esperienza di sé sono strutturate nel corpo e quindi leggere il corpo fornisce indicazioni sul passato della persona.Ma questa analisi delle passate esperienze deve procedere di pari passo con il lavoro sul corpo ed unirsi all’analisi  dei sogni, del comportamento e al dialogo verbale del cliente con il suo terapeuta. Tutto ciò che emerge in questi contesti deve essere collegato dal cliente con quello che sente e con la percezione del proprio corpo perché ci sia un’integrazione mente-corpo e la persona si senta veramente intera.Scissioni nella personalità, secondo Lowen sono riflesse nella scissione tra i tre segmenti principali del corpo: testa, torace e bacino. Quando c’è questa scissione, il soggetto  per esempio divide il sesso dall’amore e non collega i sentimenti con i pensieri. Il corrispettivo di questa situazione è un’interruzione del flusso di eccitazione dell’organismo che non può trasmettersi da un segmento corporeo all’altro per via di tensioni croniche nei muscoli del collo (che collega testa e torace) e  della cintola (che collega torace  e bacino).A questo proposito Lowen riporta il caso di un uomo di mezza età che durante il giorno era un capace uomo d’affari, freddo e logico, mentre di notte frequentava discoteche e tradiva spesso la moglie con sconosciute, ma non voleva separarsi per non perdere la possibilità di stare vicino ai figli che amava. Lowen aveva individuato in lui delle forti tensioni nel collo e alla base del cranio che separavano la testa dal resto del corpo, oltre che delle tensioni intorno al bacino e alla vita che separavano i genitali dalla testa e dal cuore.Questo significava che mentre nell’orgasmo si ha un’arrendersi del sé e una perdita dell’Io per appagare il sé,  questo cliente si arrendeva al sesso senza amore e in questo c’era  qualcosa di autodistruttivo.Tutto questo era dovuto al fatto che il cliente si era sentito sedotto dalla madre e poi tradito quando lei aveva relazioni con altri uomini, mentre il padre, la cui relazione con la madre era in crisi, veniva da lui temuto come rivale più potente nella contesa per l’amore della madre. Quindi il cliente sentiva di dover reprimere le sensazioni sessuali per la madre  e la rabbia verso di lei per il tradimento, nonché la paura  e rabbia verso il padre e questo aveva richiesto di separare le sensazioni sessuali dai sentimenti del cuore con perdita del collegamento tra il torace e il bacino. Questa scissione era resa necessaria dalla paura di essere sopraffatto da  e punito per le emozioni di rabbia, amore, tristezza e paura. Secondo Lowen solo l’espressione delle emozioni può, allentando la tensione cronica prodotta dalla loro repressione, ripristinare l’integrità dell’organismo attraverso la comunicazione dell’eccitazione da un segmento all’altro del corpo e questo obiettivo era stato da lui perseguito nella terapia con questo cliente facendogli esprimere l’emozione più potente che coinvolge la totalità del corpo: la rabbia (l’altra emozione di pari intensità è l’amore). Il cliente aveva trasferito sul terapeuta l’amore, la paura e la rabbia che aveva verso il padre e quindi una forte ambivalenza. Lavorare intellettualmente sul transfert non è sufficiente, secondo Lowen a cambiare la struttura psicologica e fisica del cliente, egli deve invece avere un’esperienza di transfert viva e intensa, ma questo era reso difficile dall’ambivalenza. Il cliente aveva bisogno del sostegno e affetto del terapeuta (come del padre) e quindi collaborava facendo gli esercizi di grounding e respirazione ed esprimendo sentimenti durante il lavoro sul corpo, ma si sentiva anche superiore al padre, e quindi al terapeuta e non abbandonava il controllo intellettuale, non si arrendeva al terapeuta, né a se stesso, né alla sua rabbia sentita come troppo forte per essere gestita. Questo è portato da Lowen come caso in cui la terapia sembrava destinata al fallimento perché non si riusciva a progredire oltre.Ancora una volta è risultata cruciale la capacità del terapeuta di stare, e in particolare Lowen sottolinea l’importanza dell’accettazione da parte del terapeuta e del cliente del fallimento, perché se si accetta, non si ha più niente da perdere. A questo punto infatti il cliente riuscì finalmente ad esprimere tutta la sua rabbia per questo fallimento e colpì il lettino con i pugni esprimendo risentimento verso il terapeuta che sentiva avere un atteggiamento di superiorità nei suoi confronti. (!) L’associazione con la sua rabbia per il padre seguì quasi immediatamente, permettendogli di ammettere quanto non si era sentito sostenuto da lui e quanto non lo ritenesse un vero uomo capace di affrontare e risolvere i propri conflitti con la moglie.L’espressione del sentimento di rabbia, portò all’allentamento delle tensioni muscolari ad essa collegate, con maggiore comunicazione dell’eccitazione corporea tra un segmento e l’altro del corpo e come Lowen ha notato in questi casi, con il fluire libero dell’eccitazione si ha anche un fluire dell’amore, con una nuova o rinnovata capacità di amare e di collegare l’eccitazione sessuale con l’amore.Il cliente ritrovò, con il contatto con le proprie sensazioni e i propri sentimenti, anche l’amore per la moglie che sembrava scomparso e la coazione sessuale lasciò il posto all’amore sessuale.Conclusioni Lowen sottolinea l’aspetto di rigidità presente nella volontà, quando questa diventa un atteggiamento costante che organizza la nostra vita. La rigidità muscolare nasce dalla paura e dal conseguente bisogno di controllare, reprimere, nascondere. La volontà che aiuta a sopravvivere in situazioni critiche, in realtà, come la tensione cronica, diventa controproducente quando diventa un atteggiamento mentale costante, perché non permette di gioire. La gioia nasce dal contatto col nostro corpo e dall’espressione dei nostri bisogni e sentimenti, la volontà invece prende il sopravvento anche negandoli per raggiungere un obiettivo prefissato.Di qui la necessità di arrendersi, lasciare andare la volontà per poter passare da uno stato di sopravvivenza ad una vita gioiosa e così, nella relazione terapeutica, per passare dal difendersi all’esserci ed al partecipare attivamente e con tutti i sensi accesi alle dinamiche ed agli eventi che si stanno dispiegando in tutte le loro manifestazioni nel qui ed ora. Da tutto ciò che ho esposto fin qui sembra quasi che l’impasse in psicoterapia sia  uno stadio inevitabile, soprattutto quando la posta in gioco (cioè i sentimenti e il dolore in particolare) è alta e quindi il bisogno di ritrovare un’armonia e la dipendenza da un aiuto esterno sono grandi.A quanto pare in queste situazioni più che il fare conta l’essere, la presenza, la consapevolezza da parte del terapeuta e del paziente di se stessi, in tutte le proprie manifestazioni che includono quelle corporee, ma anche della relazione che c’è tra loro, nel qui e ora. Una conseguenza spontanea di questa presenza è l’abbandono delle reciproche rigidità difensive ed un’entrare in risonanza, in cui ciascuno rivela se stesso, con autenticità, umiltà, rivelando ed accettando i propri limiti, a volte ammettendo la sconfitta ma sentendo che ciò è possibile perché il contatto con sé, con l’altro e con la realtà del presente è un sostegno che permette di vivere intensamente il momento e scoprirne, tutta la bellezza e tutte le vie d’uscita che sembravano prima inesistenti.

CONFERENZA SIAB DEL 5 NOVEMBRE 2007 DAL TITOLO “L’impasse nel processo psicoterapeutico e le risorse dell’Analisi Bioenergetica” – relatrice: Gabriella Lipford (psicologa in formazione bioenergetica)

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